Beirut è ripiombata nel terrore.
Era il marzo del 2005 quando Pierre Gemayel tornava da Parigi per riabbracciare il suo Paese libero. Il 21 Novembre, crivellato da otto pallottole nel quartiere maronita Jdeid, Pierre, ministro dell'Industria con la faccia da bambino, lascia la sua vita dentro la sua berlina d'argento, all'uscita dalla chiesa di Santa Rita. Pierre era soprattutto un Gemayel. Una delle famiglie che hanno fatto il Libano. Uno dei nomi che hanno tatuato questo Paese. Figlio del moderato Amin, presidente dal 1982 al 1988, nipote del temerario Bashir ammazzato dopo l'elezione a presidente, ma anche del nonno Pierre che fondò la Falange nel 1936. Così i suoi assassini non hanno sparato solo a Pierre. Ma a tutti i Gemayel insieme. E poche ore dopo tutta Beirut, ma anche tutto il Libano, erano seminati di foto del Ministro-bambino, ad aggiungersi alle tante - come se non fossero state abbastanza - delle altre vittime eccellenti (6 nell'ultimo anno) di efferati attacchi di matrice terroristica.
La voglia dei Libanesi di far ricordare o di non voler dimenticare è tanta, a volte ossessiva, al punto che quelle immagini delle vittime diventano ordinarie quanto uno qualsiasi dei poster che tappezzano la città: forse sono tra i pochi ad accorgermi che una delle foto di Pierre si alterna con quelle di stravaganti campagne pubblicitarie. Surreale.
Gli assassini hanno sparato sapendo che questo gesto avrebbe destabilizzato di più della mera uccisione di un politico di peso. Sulle intenzioni e sui mandanti non ci possono essere le solite affrettate certezze.
Cui prodest? La scelta è imbarazzante.
Agli Hezbollah che vogliono "morto" politicamente Siniora,
all'Iran sponsor di Nasrallah,
ai siriani che non accettano la perdita del Libano,
al "clan" dei maroniti che potrebbe ricompattarsi dopo il lutto,
ai drusi troppo deboli del voltagabbana Walid Jumblatt,
ai sunniti del premier Siniora che perdono potere ogni giorno di più,
al Mossad che ha tutto l'interesse di destabilizzarlo,
ai terroristi di Al Qaeda, agli americani impaludati in Medio Oriente,
L'ipotesi più facile è quella evocata da Saad Hariri (figlio dell'assassinato Rafiq) e George W.Bush: "Sappiamo che le mani della Siria sono dappertutto". Ma esistono ragioni logiche per dubitare che i killer possano essere Bashar el-Assad e il suo entourage di stato. Troppo banale concludere siano stati loro e basta. Lo stato siriano ha appena ricucito con l'Iraq e dunque con gli americani: che senso avrebbe azzerare tutti gli sforzi per cercare un ruolo politico dignitoso in Medio Oriente per ammazzare uno dei tanti politici libanesi seppure dichiaratamente anti-siriano?.
Non è stata la classica autobomba, simbolo dell'assassinio di stampo siriano. Gli hanno sparato in faccia.
A questo punto forse la domanda più lungimirante potrebbe essere: chi ha interesse a rovinare il regime siriano? Quali sono i suoi veri e magari travestiti nemici?
Fatto sta che questo assassinio è diventato una prima porta aperta alla guerra civile. Come urlano i giornali libanesi. Un ennesimo scacco alla flebile pace del Libano. Pochi credono nella possibilità che invece possa scoccare il ritorno dell'unità. Oggi, per i libanesi, identificarsi in uno Stato Unico e Unito è un'utopia. Non c'e' fiducia, e l'identità di gruppo è sempre piu'ristretta.
Sono qui anche per questo: non vedo partiti, non vedo simboli ideologici, vedo paura negli occhi delle persone, vedo in tutti dubbi per il proprio futuro, impossibile fare piani a lunga scadenza ma anche a medio/breve termine. Ma, amico Libano, noi continueremo ad amarti e a non abbandonarti, a sostenerti anche in giorni difficili come questi...
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento