sabato 26 gennaio 2008

25th Jan: police targetted




Una bomba è esplosa vicino ad un cavalcavia nella parte orientale di Beirut, nel quartiere cristiano di Furn al-Shebbak, uccidendo un alto funzionario di polizia e almeno altre cinque persone, secondo quanto riferito da fonti di sicurezza.
Si tratta di Wisam Eid, capitano dei servizi d'informazione delle Forze di sicurezza interne (Isf, polizia) considerata vicina alla coalizione antisiriana del leader Saad al-Hariri al potere.
Con una tecnica ormai sanguinosamente collaudata, e impiegata anche nell'ultimo attentato del 15 gennaio contro un fuoristrada dell'ambasciata Usa (tre morti), un'autobomba parcheggiata a lato del viadotto che sovrasta l'incrocio e imbottita con almeno 25 chili di esplosivo ad alto potenziale è stata fatta detonare a distanza al passaggio dell'auto dell'ufficiale delle Isf. L'esplosione, che ha scavato un cratere di quasi due metri di diametro nella carreggiata stradale, ha investito in pieno l'auto di Eid e danneggiato altri veicoli di passaggio.
I pompieri hanno gettato acqua sulle macchine in fiamme e i rottami sparsi sulla strada del quartiere Hazmiyeh, a maggioranza cristiana.
L'esplosione è avvenuta dieci giorni dopo che un'autobomba ha danneggiato una vettura diplomatica americana nella capitale libanese uccidendo tre persone e ferendone sedici.
L'intelligence della polizia è coinvolta molto da vicino nell'indagine guidata dall'Onu sull'assassinio del padre di Hariri, l'ex primo ministro libanese Rafik al-Hariri. Parlando con i giornalisti sul luogo dell'esplosione, il generale Ashraf Rifi, comandante delle Isf, ha confermato che l'attentato aveva per obiettivo proprio Eid che, ha detto, "era incaricato di seguire dossier delicati relativi alla catena di attentati che ha colpito il Libano negli ultimi due anni". Il ministro della gioventù Ahmad Fatfat, esponente della maggioranza parlamentare antisiriana, ha sottolineato che il capitano Eid era stato coinvolto nelle indagini sulla strage del San Valentino 2005, costata la vita al premier Rafik Hariri e altre 22 persone.
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Era il nemico numero uno dei terroristi. Era un segugio coraggioso e paziente. Era l’artefice, lo scriba e il custode dei più riservati dossier sulla sicurezza interna libanese. Da tre anni inseguiva esecutori e mandanti della catena d’attentati costata la vita all’ex premier Rafik Hariri e a una decina di altre personalità libanesi. Ieri mattina ha perso la sua battaglia, è diventato, come gli sventurati protagonisti delle sue indagini, un pezzo di carne bruciata sull’asfalto.

Il capitano Wissam Eid sapeva di essere nel mirino. Avevano cercato di fargli la pelle altre tre volte. Un anno fa gli avevano lanciato una bomba a mano davanti all’uscio di casa, lui si era fatto scudo con le mani, si era salvato d’istinto, era rimasto menomato, ma vivo. Ieri non sono andati per il sottile, hanno dispiegato la stessa millimetrica, micidiale, devastante precisione riservata ai suoi predecessori. Alle dieci di mattina il capitano, 31 anni, ha appena terminato una riunione con la commissione internazionale incaricata dalle Nazioni Unite di indagare sull’assassinio di Hariri.

L’auto dell’ufficiale scende verso il centro di Beirut, entra nel sobborgo cristiano di Hazmiyeh, svolta intorno alla rotonda Chevrolet, decolla in una vampata di fuoco. Lui è già morto, intorno è l’inferno. Una fila di macchine si accartoccia una sull’altra, innesca un rogo di rottami e carrozzerie sventrate. Umani insanguinati, feriti e terrorizzati vagano nella cortina di fumo, serrano gli occhi davanti all’orrore, si tappano naso e bocca invasi dal lezzo d’ossa e carni cremate. Davanti a quei resti d’umanità fulminata, mutilata, carbonizzata, la conta delle vittime diventa tombola crudele. Per ore il bilancio parla di dieci morti poi tutto si ridimensiona a cinque cadaveri, il capitano Eid, la sua guardia del corpo e tre passanti. La distruzione, le decine di feriti colpiti in un raggio terribilmente ampio testimoniano la potenza dell’autobomba. Il fine del resto giustifica i mezzi. Il super-poliziotto Eid era anche un ingegnere, l’interprete attento e competente delle complesse perizie sul caso Hariri che accusano un gruppo di ufficiali vicini all’ex presidente Emile Laoud e alla Siria. Era la mente del tortuoso domino telematico e telefonico che collega le schede dei cellulari usati dagli esecutori dell’attentato all’ex premier ai loro probabili mandanti.
Il capitano Eid era anche un nemico dichiarato della Siria e dei suoi complici. Da otto anni la sua vita coincideva con il servizio nelle Forze di Sicurezza Interne, l’unico corpo di polizia legato al governo di Fouad Sinora. Subito dopo morte di Hariri era diventato il responsabile del dipartimento informazione e il coordinatore delle indagini condotte con gli investigatori dell’Onu. Dalla scorsa estate era anche nel mirino di Al Qaida. Per mesi aveva fatto la spola tra Beirut e la città natale di Tripoli coordinando le indagini contro i militanti di Fatah Al Islam asserragliati alle porte della città, inseguendo le tracce che portavano anche in quel caso a Damasco.
Ieri, subito dopo la sua morte, una fila di pneumatici in fiamme ha bloccato la strada da Tripoli al confine. È stato l’ultimo saluto dei suoi concittadini, l’ultima indignata risposta a chi ancora si chiedeva dove cercare gli assassini di quel super-poliziotto.

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