They kept on gun at 5.30 PM, as soon as Nasrallah finished to talk on tv. «The lebanese government —said Hizbollah sciite leader, black and orange dressed— has declared war». First gun, at 6.01 PM. Beyond the open window: blu sky, artillery, scent of spring, the deep sound of bombs, the sea at horizon. It seems a dream or something else. Outside, among the streets of a wonderful city, shoots between shiite and sunni factionssparatorie tra le fazioni: exactly what they were looking for.... The army, at the moment, is waiting, silence. Lot of soldiers are shiite, and a decision to attend and participate could break the last kind of national unity. From tanks, young head probably born during the civil war (1975-1990). Never, since then, Beirut has been so closed. Again. Hizbollah doesn't want to dismiss its private tlc network: last wedsnday they took in hostage the airport; yesterday, Nasrallah's speech then guns. Lebanese already knows, he knows the same dramatic history. And they were expecting it. Since 2 days, empty streets, empty markets, desert restaurant. In «Le Pecheur», among Corniche, only 3 tales are busy. Waiters, deliveried hommous and tabule, chat for a bit. They all own house, and want to come back. Nobody, whan it gets dark, go out. They wait. I suppose flight MEA 236, from Rome and Milan, has been the last to land in Beirut on wed: when arrived, carabinieri, paratroopers of italian army, were waiting for us, sent by embassador Checchia to gather italians. We walked for a km, in single file, dragging our baggages, along Airport Road, that cross the shiite zone, leaving at right side the palestinian camp of Shatila. Each 200mt before joining the jeep waiting for us, and handcrafted barricade - stones, tyres, rails - and few people were watching at us. Beard, mobiles, sunglasses; no army yet. Excited babies wearing the black shirt of Hizbollah, in search of stones to add on a mass. Someone welcomes «Ciao Italia». The proof we were authorized to pass; and that our carabinieri, soldiers and cooperators here made a good job. i'm here to attend a conference on Lebanese American University. It's impossible, to talk of the «role of journalist in the inter-cultural speech». So yesterday i walked in the city, my car had the diplomatic plate. The camp that Hizbollah set in Sodeco Square since december 2006, is still there. Tanks block the street to Hamra, other surround Hariri's office. The house of Jumblatt — montain's druse— is closed like a pix. Everywhere big photos of "martyrs" of the war, dead during years of violent peace. Tonight — friday 9 may — is scheduled the 80th Pizza Italians, after a century world tour, among 40 Countries. 100 subscribed: italians, lebanese friends, Institute of Culture. We haven't called off. Never leave Beirut, it's not used...
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BEIRUT — Hanno cominciato a sparare alle 17.30, appena Nasrallah (nella foto) ha finito di parlare in televisione.
«Il governo libanese—ha detto il leader del movimento sciita Hezbollah, vestito di nero e d'arancio—ci ha dichiarato guerra». Prima esplosione, alle 18.01. Oltre la finestra aperta: cielo azzurro, raffiche secche, odore di primavera, il basso delle granate, mare sullo sfondo. Sembra d'essere finiti nel sogno di qualcun altro.
Fuori, per le strade di quella che era una città bellissima, sparatorie tra le fazioni sciite e sunnite: come se non aspettassero altro. L'esercito libanese, per ora, non si mette in mezzo. Molti, nella truppa, sono sciiti, e la decisione di intervenire potrebbe spaccare l'ultima forza di unità nazionale. Dai carri armati sbucano teste di ragazzi nati durante la guerra civile (1975-1990). Mai, da allora, Beirut c'era tornata così vicina. Il Libano delle fazioni è ricaduto nel suo vizio assurdo.
Hezbollah non vuole che il governo smantelli la sua rete privata di telecomunicazioni: mercoledì ha preso in ostaggio l'aeroporto; ieri, il discorso di Nasrallah e le sparatorie. I libanesi hanno l'occhio lungo: sapevano che sarebbe andata a finir male. Da due giorni le strade sono semivuote, i supermercati svuotati, i ristoranti deserti. A «Le Pecheur», sulla Corniche, tre tavoli occupati; piccole onde contro i vetri, navi mercantili all'orizzonte. I camerieri, consegnati hummus e tabule, parlottano tra loro. Tutti hanno una casa, e devono tornarci.
Siriani contro anti-siriani, governo sunnita filo-occidentale e opposizione sciita, maroniti incapaci di issare un proprio uomo alla presidenza, come vuole la tradizione. Il rituale libanese—«un regime feudale mascherato», sussurra ridacchiando un conoscente locale — s'è incattivito di colpo. Nessuno, quando viene buio, esce per le strade. Si assiste, si aspetta. Ci sono Internet, i cellulari, la televisione: le notti di battaglia del XXI secolo non si vedono, s'intuiscono.
Credo che il volo MEA 236, da Roma e Milano, sia stato l'ultimo ad atterrare a Beirut, mercoledì: all'uscita ci aspettavano i nostri carabinieri paracadutisti del Tuscania, mandati dall'ambasciatore Checchia a raccogliere gli italiani in arrivo. Per un chilometro, in fila indiana, tirando i bagagli, abbiamo camminato lungo Airport Road, che attraversa i quartieri sciiti, e si lascia a destra il campo palestinese di Shatila. Ogni duecento metri, prima di arrivare ai fuoristrada in attesa, una barricata artigianale — sassi, gomme, ringhiere — e una piccola folla che ci studiava. Barbe, telefonini, occhiali da sole; niente armi visibili, non ancora. Ragazzini in motorino passavano dai varchi. Bambini eccitatissimi, anche loro con la maglietta nera di Hezbollah, cercavano sassi per aggiungerli al mucchio. Qualcuno salutava: «Ciao Italia». La prova che il transito era autorizzato; e i nostri carabinieri, soldati e cooperatori, da queste parti, hanno fatto un buon lavoro.
Sono venuto qui per una tavola rotonda alla Lebanese American University e una conferenza. Surreale—anzi, impossibile — parlare del «ruolo del giornalista nel dialogo interculturale». Così ieri ho girato la città, in un'auto con targa diplomatica: qualche varco si apriva, ma non tutti.
La tendopoli che Hezbollah ha piantato in Sodeco Square nel dicembre 2006, dopo la guerra con Israele, è ancora lì. Carri armati bloccano la strada per Hamra, altri circondano l'ufficio di Hariri, il figlio del presidente ucciso. La casa cittadina dei Jumblatt — drusi di montagna, quelli che il «Partito di Dio» considera i veri avversari — è chiusa come uno scrigno. Dovunque gigantografie di caduti, degli attentati che hanno ritmato la vita del Libano anche in questi anni di pace violenta. Ognuna delle diciotto fazioni, come un'organizzatissima tifoseria, ha i suoi simboli, i suoi striscioni, i suoi martiri, i suoi colori. E' il marketing del risentimento, e funziona.
Stasera — venerdì 9 maggio — è in programma la 80˚ Pizza Italians, dopo un giro del mondo durato dieci anni, attraverso quaranta Paesi. Cento iscritti: italiani da esportazione, amici libanesi, l'istituto di cultura. Non abbiamo ancora cancellato. Mollare, a Beirut, non si usa.